Suu Kyi è scettica. «Talvolta penso che una parodia di democrazia potrebbe essere più pericolosa di una dittatura palese, perché darebbe alla gente l'opportunità di evitare di fare qualcosa al riguardo». L'occidente tende a vedere la Birmania attraverso il prisma del movimento democratico di Suu Kyi. Ma una crisi altrettanto grave e, anzi, secondo alcuni anche più preoccupante, è la guerra civile infinita fra l'esercito birmano e i tanti gruppi etnici minori, che vivono soprattutto nelle zone di confine. Gli scontri con i Karen, Kachin, Wa, Shan e altre popolazioni si riaccendono continuamente da sessant'anni, durante i quali hanno provocato forse un milione di morti. Non è qualcosa che il ritorno alla democrazia potrebbe risolvere facilmente, anche se alcune minoranze potrebbero essere più disposte a far parte di una nazione democratica che non di un regime militare votato alla loro totale sottomissione.



Il padre di Suu Kyi tentò di affrontare il problema nella piccola città Shan di Panglong, che nel 1947 ospitò una conferenza durante la quale le popolazioni Shan, Chin e Kachin, ma non gli altri gruppi etnici, accettarono di far parte della repubblica in cambio di una notevole autonomia. Suu Kyi ha dichiarato l'intenzione di convocare una seconda Panglong lanciando un nuovo tentativo di accordo con le minoranze etniche, i cui leader in alcuni casi la vedono non tanto come una paladina della democrazia, quanto come la rappresentante del nazionalismo birmano. «Non c'è ancora uno spirito unitario», ammette lei. «Non esiste fra le nazionalità etniche, inclusi noi birmani, che siamo soltanto i più numerosi, la sensazione di un'appartenenza comune». Molti sono scettici anche sulla sua possibilità di convocare una conferenza di questo tipo, date le limitazioni, esplicite o implicite, imposte alla sua attività dai militari. Lei nega che siano state poste condizioni per la sua liberazione. Ma perché, allora, non ha lasciato Rangoon? «Ho molto lavoro da fare qui. Come potrei stare qui a parlare con lei se dovessi andare in giro per tutta la Birmania?», risponde in modo non troppo convincente. Panglong 2, dice, si può fare nel cyberspazio, anche se le autorità dovrebbero concederle una connessione internet solo il giorno in cui la intervisto. «Se non riusciremo a incontrarci tutti insieme di persona in un posto, possiamo comunicare usando tutte le tecnologie informatiche disponibili nel XXI secolo«, afferma. Affrontando un altro argomento strategico, le chiedo delle sanzioni. Thant Myint-U, scrittore e nipote di U Thant, ex segretario generale dell'Onu, si è espresso contro queste misure in modo molto eloquente, scrivendo che è stato Ne Win ad appendere il cartello «non disturbare» sulla porta della Birmania. «L'esercito potrà sostenere altri quarant'anni di isolamento senza alcun problema, molto più di qualsiasi altra componente della società birmana». Riguardo al turismo, Suu Kyi si è ammorbidita. Il suo partito diffonderà a breve un libro bianco che approva i singoli turisti attenti a non spendere denaro destinato a finire direttamente nelle tasche dei generali. «Vogliamo incoraggiare il turismo individuale, suggerendo ai turisti di soggiornare in determinati tipi di alberghi: un turismo etico, se vuole», dichiara. Ma sulle sanzioni economiche in senso lato è molto più cauta: del resto, sono ancora le sue principali monete di scambio. «Alcuni stanno usando il problema delle sanzioni come arma politica per colpire il movimento democratico, e non perché sono misure che danneggiano gravemente la popolazione», aggiunge specificando che la povertà è colpa di anni di cattiva gestione da parte di una giunta economicamente analfabeta. In ogni modo, ha voluto un riesame del tema delle sanzioni, che potrebbe portare qualche "modifica" nella posizione del suo partito, ammette.



Nel 1946, in un discorso in cui sottolineava la responsabilità di tutti i birmani di premere per l'indipendenza, suo padre disse: «Sono una persona molto amata dalla gente. Ma non sono un dio, né un mago».Mi chiedo se anche Suu Kyi senta il peso di aspettative eccessive, e se non tema di sottrarre il pungolo della ribellione a un popolo che ripone una fiducia irrealistica nella sua capacità di provocare un cambiamento. Noto un cenno di ammissione. «Devo confessare che non ho mai avuto tanto sostegno. Però, contemporaneamente, credo che ci sia più senso di responsabilità fra i miei sostenitori. Ho la sensazione che si rendano conto di dover fare di più, che io ho il mio ruolo, ma ne hanno uno anche loro». E continua: «Quando la gente mi chiede se voglio essere il prossimo presidente della Birmania, rispondo di no. Lo scopo di questo esercizio è avere un presidente dopo l'altro e un altro ancora». La Birmania non sembra più vicina all'obiettivo rispetto a quasi 23 anni fa, quando lei parlò la prima volta alla pagoda di Shwedagon, dico io. In un certo senso i generali sono più forti che mai. Ricevono miliardi di dollari dalla vendita di gas naturale alla Thailandia e alla Cina e hanno appena portato a termine una subdola manovra costituzionale ed elettorale finalizzata a dare una facciata democratica al loro regime.



Considerando il sacrificio che ha fatto - la separazione dai due figli e dal marito, morto di cancro nel 1999 - trovo sconvolgente la sua prima risposta: «Penso che non ci siamo ancora mossi». Poi spiega. «Vorrei che il mondo capisse che le elezioni e il mio rilascio non indicano che abbiamo raggiunto un punto di svolta. Mi hanno liberato perché la mia pena era finita». La speranza non si è estinta. «Grazie a un cambio di atteggiamento della popolazione della Birmania, soprattutto dei giovani, credo che ci muoveremo più rapidamente verso il cambiamento. Non sto dicendo che il traguardo sia vicino, o qualcosa del genere, ma solo che il movimento sta prendendo vigore». Chiedo: dopo il picco di rivolta del 1988, non c'è stata un'altra sommossa minore guidata dai monaci nel 2007? No, risponde lei. Ora la gente è ancora più attiva e coraggiosa. «Le persone sono più disposte a farsi coinvolgere. Questi collegamenti aiutano. Ti senti molto isolato se qualcuno ti picchia» - la frase suona strana sulle sue labbra - «e nessuno lo sa. Ma se la polizia ti malmena e tu puoi comunicarlo immediatamente tramite i media, e la gente comincia a gridare il tuo nome per sostenerti, questo di dà potere».



Quando ormai l'orologio segna mezzogiorno, riporto la conversazione sul tema iniziale. Sente rimpianto per gli anni che ha perduto, per il mondo esterno alla sua prigione casalinga e oltre i confini della sua prigione Birmania? «No. Ovviamente mi mancano gli amici», dice con decisione. «Ma anche rispetto agli amici, ho ricordi molto felici. Se hai ricordi felici, puoi vivere in isolamento senza pensare di aver perso troppo». Mi alzo per andarmene. «Grazie infinite di essere venuto», dice, come se fossi semplicemente andato a trovarla per un tè. Parliamo del mio piano elaborato e totalmente ridicolo per evitare la polizia segreta, che prevede un cambio di berretto e uno scambio di taxi. «Forse il suo abito gessato è un po' vistoso», scherza lei. <Non so perché lo facciano. Deve essere terribilmente faticoso e anche noioso». Si congeda raccontandomi la storia di un inglese che stava progettando un viaggio in Birmania qualche anno fa. «È andato al pub che frequentava come al solito e ha detto che sarebbe andato in vacanza in Birmania. E uno dei suoi amici ha detto: "Sicuro che dovresti andarci? Quella donna con il nome impronunciabile ha detto che non devi farlo". Mi ha molto commossa. Non sapeva pronunciare il mio nome, ma ovviamente aveva preso a cuore il mio messaggio». E poi aggiunge, quasi con indifferenza, come se gli ultimi 23 anni fossero stati un piccolo inconveniente: «Ho pensato che la prossima volta che riesco ad andare in Inghilterra, devo andare in quel pub».

2011.01.29 Il sole 24 ore